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  • Pasquale Giurato

Peacekeeping e peacebuilding operations (1)





Le Nazioni Unite, attraverso l’articolo 1 della Carta di San Francisco, si sono poste come obiettivo primario la pace e la sicurezza internazionale con la possibilità di adottare misure atte a prevenire e rimuovere minacce alla pace, violazioni della pace ed atti di aggressione. In particolare, il Consiglio di Sicurezza, in qualità di istituzione principale in tale materia, dopo aver accertato la sussistenza di uno dei tre casi citati, può raccomandare o decidere di adottare misure ex artt. 41-42 al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.


Peacekeeping


Il significato del termine e come è nato


Il termine peacekeeping si traduce letteralmente con “mantenimento della pace”.

L’idea nasce nel 1992, quando il segretario generale delle Nazioni Unite di quegli anni, Boutros Ghali[1], aveva definito il peacekeeping come un’invenzione delle Nazioni Unite che ha permesso di realizzare obiettivi come la prevenzione dei conflitti e il riprestino della pace, attraverso l’intervento di una forza neutrale rispetto alle parti in conflitto atta a prevenire, contenere e portare a termine le ostilità tra o entro gli Stati.


Durante la guerra fredda però, a causa dell’esercizio del potere di veto da parte dei membri permanenti, le varie divergenze tra le due superpotenze riguardanti l’entità, mantenimento e stanziamento dei contingenti militari, hanno impedito la conclusione degli accordi tra il Consiglio e gli Stati Membri delle Nazioni Unite per il reclutamento delle forze armate (ex art.43).


La premessa per la creazione delle peacekeeping operations si è sviluppata in seguito all’esigenza di fronteggiare situazioni di crisi internazionali o interne a Stati. Queste operazioni sono realizzate direttamente dall’Organizzazione, sotto l’autorità politica del Consiglio di sicurezza e la direzione del Segretario Generale, ed effettuate da contingenti nazionali forniti dagli Stati membri mediante accordi stipulati caso per caso con le Nazioni Unite.


Inizialmente infatti il peacekeeping ONU fu sviluppato come mezzo per risolvere i conflitti attraverso il dispiegamento di personale militare disarmato o con armamento leggero proveniente da più Stati, sotto la supervisione ONU, in aree dove i contendenti avevano bisogno del supporto di una terza parte neutrale in funzione di osservatore del processo di pace. Questi potevano entrare in azione solo quando le principali potenze, cioè i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, davano il compito alle Nazioni Unite di porre fine a conflitti che minacciassero la stabilità regionale e la sicurezza mondiale.


Caratteristiche e sviluppo delle operazioni


Le operazioni di peacekeeping, anche se istituite durante il periodo della guerra fredda, hanno conosciuto un notevole sviluppo, con un ampliamento delle competenze, a partire dagli anni ‘90. I vari ambiti di intervento di peacekeepers, gli operatori di pace, sono:

- prevenzione dei conflitti (“conflict prevention”);

- edificazione della pace (“peace making”) e mantenimento della pace (“peacekeeping”);

- assistenza umanitaria (“humanitarian aid”);

- consolidamento della pace (“peace building”).


Queste operazioni hanno delle caratteristiche che le rendono efficaci all’interno del quadro della stabilizzazione di uno scenario di conflitto. Prime caratteristiche sono il consenso di tutte le parti coinvolte nella crisi, l’imparzialità e l’uso della forza armata in legittima difesa. Il consenso è sancito dagli accordi tra l’Organizzazione e lo Stato sul cui territorio avviene il dispiegamento della forza di pace. Il consenso può essere anche contenuto in un accordo di pace concluso tra le parti in conflitto, siano esse due o più Stati, nel caso di un conflitto internazionale, o fazioni in lotta, nel caso di guerre civili. Le Nazioni Unite hanno il compito di verificare le condizioni di applicazione del medesimo accordo.


La volontà degli Stati ospiti viene sancita, invece, dagli Status of Force Agreements (SOFAs), cioè i trattati regolatori dei requisiti dell’operazione e del personale che prende parte ad una missione di peacekeeping e vengono stipulati ogni qualvolta venga disposta un’operazione di tale tipologia. Accordi come questi stabiliscono che le forze delle Nazioni Unite, una volta dispiegate sui territori degli Stati, ne devono rispettare le leggi ed i regolamenti, sotto la responsabilità del Rappresentante speciale del Segretario generale o del Comandante della forza. Il governo territoriale deve tutale la natura internazionale dell’operazione e può farlo riconoscendo loro il diritto di usare la propria bandiera e di identificare i propri mezzi con segni distintivi oltre al concedere alle forze la libertà di movimento nel territorio. Molto importante è la parte che riguarda le immunità ed i privilegi della forza multinazionale. I SOFAs permettono agli Stati partecipanti l’illimitata e libera importazione (c.d. “Duty-free”) di forniture, equipaggiamenti ed altri beni da utilizzare per fini ufficiali ed esclusivi dell’operazione. I governi dei paesi, a loro volta, si impegnano a mettere a disposizione aree da utilizzare come quartieri generali e campi che vengono poi dichiarati inviolabili e sono sottoposti all’esclusivo controllo delle Nazioni Unite come stabilisce il par.16 del modello dei SOFAs.


Un'altra caratteristica delle missioni di mantenimento della pace fa riferimento alla regola dell’imparzialità nell’attuazione del mandato nel quale, le Nazioni Unite, si astengono dalle attività incompatibili con il carattere imparziale e neutrale dell’intervento militare tramite il quale i caschi blu si collocano come soggetti terzi rispetto alle parti in conflitto. A sua volta, lo Stato territoriale assicura il rispetto del ruolo internazionale del personale UN e l’applicazione delle immunità e privilegi, previsti dalla Convenzione multilaterale del 13 dicembre 1946.


Il terzo requisito delle operazioni di peacekeeping riguarda il ricorso alla forza armata solamente nell’ipotesi di legittima difesa, le cui condizioni di esercizio sono state oggetto di particolare attenzione in riferimento alla distinzione tra le peace-keeping operations e le operazioni militari. Il rapporto Brahimi del 21 agosto 2000, redatto da un comitato di esperti su richiesta delle Nazioni Unite, ha inserito l’uso della forza in legittima difesa tra i bedrock principles delle forze di pace. Generalmente, l’estensione dell’utilizzo della forza armata riconosciuto alle missioni di pace viene definito, di volta in volta, nel momento i cui sono fissate dal Segretario Generale le regole di ingaggio, ossia le linee-guida con le quali si condurranno le operazioni.


Le 3 generazioni delle operazioni di peacekeeping


Si possono distinguere tre generazioni di peacekeeping.


Sono considerate di prima generazione tutte quelle missioni di mantenimenti della pace istituite durante il periodo della guerra fredda (fino al 1987) il cui compito era quello di interporsi tra due o più parti in conflitto, rispettando una stretta posizione di neutralità tra le medesime, per garantire l’attuazione del cessate-il-fuoco. Tali missioni, dispiegate sul territorio dello Stato ospite solo con il suo consenso, non erano abilitate all’uso della forza armata, tranne che per ragioni di legittima difesa. Tale modello, indicato come “Tradizionale” ha subito delle modifiche: il principio del consenso non è stato rispettato come requisito assoluto e necessario, manifestato da “tutte le parti” coinvolte in una crisi; si tratta dei casi in cui l’autorità che lo ha manifestato non deteneva, concretamente, il controllo del territorio, o quando le parti coinvolte in un conflitto che avevano stipulato un accordo di pace sono venute meno ai loro impegni. Sulla base di questo, l’allora Segretario Boutros Boutros Ghali, nonostante faceva salva la possibilità di poter prescindere dal consenso in talune circostanze, ribadiva che i requisiti fondamentali delle suddette missioni rimanevano il consenso e la cooperazione delle parti, principi riconosciuti dallo stesso Consiglio di sicurezza, in occasione delle Osservazioni sull’Agenda per la pace. Dal 1989, con l’affermazione dell’equilibrio multipolare, le PKO[2] aumentarono e si diversificarono dal modello tradizionale, che venne affiancato e/o sostituito dalle operazioni di seconda e terza generazione.


Le operazioni di seconda generazione, invece, fanno riferimento alle missioni di pace nelle quali il ruolo della componente civile diventa quasi primario rispetto alle attività di carattere militare e i cui mandati prevedono obiettivi di carattere politico-sociale che possono essere attività di rimpatrio dei rifugiati, di assistenza umanitaria e di tutela dei diritti umani, o in operazioni volte all’organizzazione e al monitoraggio di elezioni politiche. Questo modello si sviluppa sugli stessi approcci delle operazioni tradizionali di cosiddetta prima generazione. Le operazioni di seconda generazione vengono inserite in piani di pace, accettati dalle parti interessate, favorendo l’applicazione dei termini di regolamento per la soluzione del conflitto.


Le PKO di terza generazione sono, per concludere, quelle operazioni in cui le forze hanno l’obiettivo della realizzazione della pace attraverso l’esercizio di attività di carattere coercitivo. Generalmente, tali operazioni, vengono definite “peace-enforcement”, e costituiscono lo sviluppo e l’ampliamento di operazioni precedenti che non hanno perseguito la finalità per la quale sono state istituite a causa dell’inadeguatezza dei relativi mandati e per le impreviste circostanze sopraggiunte. Esse, a differenza delle operazioni di prima e seconda generazione, hanno funzioni molto più ampie, come il disarmo delle parti in conflitto e, essendo legittimate all’uso della forza, perdono le tradizionali caratteristiche di forze operanti in modo neutro con il consenso delle parti. La mancanza del requisito di cooperazione ha indotto parte della dottrina a ritenere che tale modello sia inconciliabile con la categoria del peacekeeping e, pertanto, inquadrabile nell’ambito del capitolo VII della Carta. In questo tipo di operazioni possono essere svolte le seguenti missioni:

- Contenimento: con lo scopo di limitare l'espansione e l'intensità del conflitto per mezzo o meno della forza;

- Applicazione di misure coercitive: con azioni di forza contro obiettivi circoscritti attuate, generalmente, a seguito del mancato rispetto degli accordi;

- Protezione delle attività umanitarie: con lo scopo di garantire la sicurezza alla popolazione e ai convogli umanitari, attraverso la vigilanza di obiettivi sensibili e scorte;

- Creazione e controllo di aree sicure: mediante vigilanza e protezione di parti di territorio e popolazione ivi residente;

- Separazione forzata dei contendenti: separando coercitivamente, anche con l'uso della forza, i contendenti creando zone demilitarizzate e creando i presupposti previsti dalle missioni di interposizione;

- Liberazione di territori occupati: ottemperando al mandato internazionale, ripristinando la sovranità nazionale in territori occupati, anche mediante l'utilizzo della forza.


Le peacekeeping operations oggi


Oggi l’obiettivo principale di queste missioni è legato al congelamento e la stabilizzazione delle aree in cui i conflitti diventano nocivi e pericolosi per il sistema internazionale e regionale. Generalmente l'impiego di contingenti militari può essere disposto al fine di sorvegliare ed osservare i processi di pace nelle aree post-conflittuali ed anche talvolta assistere le parti precedentemente in conflitto tra loro nel dare pratica applicazione agli accordi di pace che essi hanno sottoscritto, in diversi modi: ad esempio vigilanza durante le operazioni elettorali, consolidamento dell'ordinamento giuridico e dell'ordine pubblico sviluppo sociale ed economico.

Secondo la concezione ONU, alle peacekeeping operations prendono parte i vari contingenti multinazionali messi a disposizione dagli Stati membri, definiti “Caschi blu” che devono agire in maniera imparziale all’interno dei vari scenari ed essere presenti esclusivamente col consenso degli Stati coinvolti nel conflitto. Tali contingenti hanno l’obiettivo di sorvegliare ed osservare i processi di pace nelle aree post-conflittuali ed assistono gli ex-combattenti nel dare pratica applicazione agli accordi di pace che essi hanno sottoscritto. Tale assistenza si sviluppa in diverse forme: misure per creare fiducia, intese per la condivisione di risorse energetiche, sostegno ad operazioni elettorali, consolidamento dell'ordinamento giuridico (in particolare sotto il profilo della cosiddetta effettività, ovvero dell'applicazione concreta delle norme e/o delle sentenze), sviluppo sociale ed economico etc.

A livello strutturale il Consiglio di Sicurezza delega al Segretario generale la pianificazione, preparazione e il comando delle operazioni di peacekeeping. Il segretario ha il compito di nominare, salva approvazione del Consiglio di Sicurezza, il comandante della forza quale viene conferita la responsabilità delle operazioni militari. Dal comandante si dirama la catena di comando, di cui fanno parte i vari comandanti dei contingenti nazionali. Tutti i membri della catena di comando e tutto il personale sono subordinati alle indicazioni del Comandante. Il modello di comando e controllo delle operazioni peacekeeping si costituisce di tre livelli di autorità: la direzione politica e strategica è affidata al Consiglio di sicurezza; la direzione esecutiva ed il comando al Segretario generale; il comando sul campo è attribuito dal Segretario generale al comandante dell’operazione, generalmente individuato nel Rappresentante speciale del Segretario generale, nel comandante della forza o nel capo degli osservatori militari. Di conseguenza, gli Stati fornitori dei contingenti possono disporre unilateralmente degli stessi nelle operazioni militari, in quanto alle forze nazionali viene richiesto di subordinare la propria condotta agli interessi esclusivi delle Nazioni Unite.


Ogni missione peacekeeping viene creata ad hoc per ogni singola situazione ma preliminarmente questo concetto va distinto da quello di peacebuilding.




[1] Boutros Boutros-Ghali (1922 - 2016). È stato un accademico ed ex vice ministro degli Esteri egiziano oltre che diplomatico egiziano. Divenne il sesto segretario generale delle Nazioni Unite, in carica dal 1992 al 1996.


[2] Acronimo per Peacekeeping Operations

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