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  • Chiara Buzzi

Tutela dei beni culturali in zone di conflitto (2)


I Buddha di Bamiyan prima (a sinistra) e dopo (a destra) la distruzione portata a compimento dai Talebani

Gli attacchi al patrimonio culturale


Negli ultimi anni numerosi sono stati gli attacchi al patrimonio culturale: il primo pensiero va certamente alla distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001 ad opera dei Talebani o alla tristemente clamorosa devastazione subita da Palmira nel più recente marzo 2016 ad opera dell’ISIS. Di simili casi, la cui portata può essere più o meno vasta, sono gremiti i conflitti asimmetrici, che nel mondo contemporaneo affliggono diverse zone del mondo, in particolare la regione mediorientale, ma non ne è indifferente né l’opinione pubblica, scandalizzata dalla perdita di una parte significativa della storia umana, né la Comunità Internazionale che si è adoperata nella creazione di misure rivolte alla tutela dei beni culturali esposti ai numerosi rischi del conflitto e sembra dedicare sempre più energie nel contrasto alla distruzione non solo di beni di valore artistico, ma anche di prodotti dell’uomo e segni di identificazione e riconoscimento etnico o religioso.


Una definizione di cosa siano i beni culturali da tutelare e proteggere in situazioni di conflitto viene dettagliatamente fornita al capitolo 1, art. 1, delle disposizioni generali della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato siglata a L’Aja nel 1954. Sono definiti beni culturali, prescindendo dalla loro origine e dal loro proprietario, i beni, mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici; le località archeologiche; i complessi di costruzione che, nel loro insieme, offrono un interesse storico o artistico; le opere d'arte, i manoscritti, libri e altri oggetti d'interesse artistico, storico, o archeologico; nonché le collezioni scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra definiti; gli edifici la cui destinazione principale ed effettiva e di conservare o di esporrei beni culturali mobili (…), quali i musei, le grandi biblioteche, i depositi di archivi, come pure i rifugi destinati a ricoverare, in caso di conflitto armato; i centri comprendenti un numero considerevole di beni culturali, detti "centri monumentali".


Non solo la produzione di convenzioni e patti ha proliferato nel dopoguerra, ma anche la giurisprudenza prodotta negli ultimi trent’anni presenta una significativa evoluzione rispetto al profilo delle categorie di diritto penale sostanziale coinvolte. Durante i processi per crimini internazionali, gli attacchi ai beni culturali sono stati categorizzati sia come crimini di guerra in considerazione ad una grave violazione del diritto internazionale, sia come atti di persecuzione, nell'elemento psicologico della distruzione dell’etnia nemica sottostante all'attacco. Il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia fu autore della sentenza nella quale furono delineati elementi riconducibili al crimine di genocidio, poiché gli attacchi a beni culturali, artistici e religiosi si caratterizzano come decisi e realizzati “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Nella fattispecie della tutela dei beni culturali, sebbene non fosse prevista un’esplicita norma in merito all’interno dello Statuto che non rientrasse nelle generiche indicazioni di saccheggio di beni pubblici e privati, distruzioni immotivate di città o devastazioni non giustificate da esigenze militari, il Tribunale militare internazionale di Norimberga fu la prima istituzione che sviluppò la connessione all'art. 6(1)(c) tra la categoria dei crimini contro l’umanità, nella configurazione degli atti di persecuzione, e l’attacco ai beni culturali.


Numerosi sono gli atti di incriminazione che recano una particolare enfasi su casi di distruzione di beni religiosi, per esempio, che rappresentano nella stessa categoria sia beni culturali come patrimonio universale, sia beni appartenenti all'identità di una popolazione.


L’articolo dello Statuto del Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia, a cui è doveroso fare riferimento per quanto riguarda la disciplina della tutela dei beni culturali, è l’art. 3, il quale fa divieto, al punto (b), di distruzione arbitraria di città, paesi o villaggi, o devastazione non giustificata da esigenze belliche, richiamando il principio di necessità militare come già presente nella Convenzione dell’Aja del 1954; al punto (c) vieta ogni sorta di attacco o bombardamento, con qualsiasi mezzo, di paesi, villaggi, abitazioni o edifici indifesi, divieto in cui si riconosce quella che precedentemente è stata descritta come protezione indiretta, poiché si riferisce solo ad obiettivi civili; il punto (d), che sancisce il sequestro, distruzione o danneggiamento deliberato di edifici dedicati al culto, all'assistenza, all'educazione, alle arti o alle scienze, di monumenti storici e opere d’arte o di scienza rappresenta la norma sulla quale si fonda l’ipotesi per cui l’attacco ai beni culturali possa essere una configurazione della fattispecie di persecuzione; infine, il punto (e) sancisce, nuovamente nello schema della protezione indiretta, il saccheggio di proprietà pubbliche o private.


Nel 2016 la Corte Penale Internazionale ha giudicato per la prima volta un imputato colpevole solo ed esclusivamente di distruzione di patrimonio culturale: Al-Madhi al Faqi, cittadino del Mali, nella sua attività per l’organizzazione fondamentalista Hisba, progettò e condusse la distruzione di 9 mausolei ed una Moschea. La sentenza lo condannò colpevole di distruzione del patrimonio culturale dell’Africa e del mondo, assegnandogli una pena di nove anni di detenzione. L’importanza del processo risiede nell'aver creato un fondamentale precedente in materia.

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