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  • Immagine del redattoreMarco Cencio

Il MoU: potenzialità (non sfruttate), rischi (molti) e opportunità (enormi e irripetibili)


Xi Jinping e Giuseppe Conte durante un momento della visita del presidente cinese in Italia. (Foto LaPresse)

Nei giorni scorsi si è dibattuto in maniera diffusa del MoU (Memorandum of Understanding, N.d.R.) firmato tra l’Italia e la Cina.

Nella miriade di commenti e considerazioni che sono state scritte e pubblicate in questi giorni hanno forse contribuito, in positivo, a dare avvio a un dibattito che era necessario che venisse sollevato e venisse dibattuto, in negativo invece hanno però contribuito a creare confusione, spesso, e soprattutto non sembra essere riusciti ad uscire da un recinto ideologico che caratterizza da sempre i rapporti tra Italia e la Cina. Tale impostazione (quasi manichea potremmo affermare) non sembra aver permesso una reale narrativa circa il MoU e la sua reale portata. Ciò che si trova nel memorandum avrà un’attuazione di anni, periodo generalmente necessario al fine di stendere a livello giuridico e normativo un accordo bilaterale, e pertanto predire adesso cosa accadrà è abbastanza difficile.


Quali considerazioni si possono congetturare, dunque? Si possono portare alcune considerazioni all’attenzione dei nostri lettori? Certamente sì, essendo però onesti nella loro categorizzazione. Dobbiamo cioè essere consapevoli di alcune circostanze, le quali saranno esposte nei prossimi paragrafi.


L’importanza del Mediterraneo per Pechino e quindi dell’Italia


La Repubblica Popolare Cinese ha sempre mostrato interesse per il mercato e i commerci europei, basti pensare alle concessioni avanzate della Grecia a favore del Paese asiatico nel Pireo, e sotto questo aspetto l’Italia deve acquisire una centralità, deve ribadire la sua importanza e la necessità che “si passi” dalla penisola per poi accedere all’Europa centrale e settentrionale. Sotto questo aspetto, il Memorandum è un punto importante ma è troppo scoordinato da altre azioni politico-economiche europee. Una maggiore azione a livello comunitario, auspicando una Comunità a servizio di tutti e non l’impostazione attuale cioè a vantaggio di pochi, avrebbe permesso dunque un maggior peso, una capacità propositiva e una caratura internazionale maggiore senza escludere la necessaria evenienza di “fare boxe” contro il Paese asiatico nel momento in cui ci siano frizioni e diverse vedute.


La dimensione e il peso internazionale


L’ultimo concetto espresso è rilevante, oggi come ieri, ed è sintomo di una pochezza istituzionale e politica che ha sempre caratterizzato, in misure differenti nel corso del tempo, la classe dirigenziale italiana. La dimensione internazionale italiana può essere sufficiente per dialogare alla pari con la Cina? Ovviamente no perché stiamo parlando di una media potenza in continuo (e speriamo non rapido o improvviso) declino che vuole rapportarsi con la seconda economia del mondo, con un Paese guidato da un partito la cui corrente maggioritaria è una corrente nazionalista (un nazionalismo non come quello fuffoso a cui siamo abituati noi, quel nazionalismo de' noantri per intenderci), una cultura che intende come diplomazia il fatto di mettere prima gli interessi cinesi poi, se avanza spazio, anche gli altri. Ci vogliamo davvero rapportare da soli con un Paese che ha riserve valutarie (cioè ha acquistato valute estere, N.d.R.) per un valute di poco superiore ai 3.000 miliardi mentre l’Italia ne ha meno di 150 miliardi e siamo un Paese che ha sempre più necessita di vendere quote del suo debito? Ancora: Perché la Cina ha scelto un Paese come il nostro, con molte difficoltà, abbastanza isolato e poco considerato? Mi fermo a questo punto, non per mancanza di argomentazioni e prove ma per lasciare spazio alle considerazioni dei singoli e per tornare alla dimensione europea.

Se si fosse negoziato a livello europeo, dunque, avremmo potuto portare le nostre istanze, aver maggior peso, avremmo potuto ingaggiare un vero negoziato, o una serie di negoziati e soprattutto avremmo potuto imporre a Pechino il (vero) concetto di scambio. La BRI, su cui già sono state scritte alcune osservazioni di massima, sembra essere una risposta necessaria ad un fenomeno che è sfuggito a quasi tutto l’Occidente: la Cina in realtà è in crisi.


Un (vero) scambio come soluzione


Come detto precedente, l’economia cinese sta rallentando e tale accadimento è dovuto al fatto che il modello predominante fino agli anni ’90 in Cina, cioè quello definibile con il concetto di accumulo primitivo (il processo che tende ad accumulare prodotti di basso costo e poi esportarli massicciamente), ha esaurito la sua efficacia e pertanto sono necessarie nuove vie di sviluppo, nuovi processi produttivi e la OBOR (One Belt One Road, altro nome della Belt Road Initiative, N.d.A.) deve essere letta pertanto in quest’ottima. Allo stesso tempo, questo imponente progetto deve essere anche considerato come la nostra migliore opportunità per poter obbligare la Cina ad aprirsi al mondo, adeguarsi alle regole del libero scambio e quelle del mercato globale, che è poi il vero concetto di libero scambio, cioè una bidirezionalità nella circolazione delle merci, dei servizi e delle persone. Attualmente infatti, situazione nota a tutti in misura più o meno consapevole, la Cina non consente i margini di manovra e di azione che invece le sono concessi (e che pretende) all’estero in termini sia di investimenti di capitali esteri sia a livello industriale, di persone e di servizi.

La sola Italia non può avere la forza di imporre tali condizioni, tali paletti. L’Europa invece, cioè la Comunità a servizio di tutti come intesa precedentemente, ce l’avrebbe eccome e permetterebbe una contaminazione proficua per tutti. Un’apertura del mercato cinese, Paese dall’import sempre maggiore e che ha necessità di prodotti nuovi e vari, permetterebbe di esportare in Cina, a pari condizioni e non con quelle attuali dunque, sia i nostri bene e servizi ma anche e soprattutto i valori di cui ci riempiamo la bocca ma che rimangono sempre sulla carta: libertà - di parola, di pensiero, di espressione -, democrazia, separazioni dei poteri etc. Potremmo contaminare la Cina (ed esportando poi questo modello di contaminazione benigna e soft non solo alla Cina ma anche alle altre sere del globo che ci interessano: Medio Oriente e Africa) a livello culturale e non solo economico, rendendo la “nuova via della seta” un corridoio globale a doppia corsia.


In conclusione, vi è l’ultimo grande vantaggio per tutti i Paesi Europei: riuscire finalmente a non farci schiacciare dai due poli, dai due attori geopolitici, l’America di Trump e la Russia di Putin, che traggono maggiore vantaggio dalle divisioni e dalle impostazioni nazionali e fintamente nazionaliste che vengono veicolate da personaggi come Steve Bannon e i suoi omologhi russi (e le opache copie europee). Le idee politiche, istituzionali e strategiche di questi personaggi risultano miopi e soprattutto contrari ai nostri veri interessi corrispondenti al non chiuderci ma aprirci e commerciare con i mercati che sappiamo assorbire ciò che produciamo e che li acquistino in massa, al fine di trarre vantaggi economici e, allo stesso tempo, veicolare messaggi e cambiamenti sociali e culturali nei Paesi con i quali vogliamo rapportarci.

Anche perché, in definitiva, se non tramite un'occasione e un'opportunità come questa, quando potremmo coinvolgere la Cina, e più in generale anche altri Paesi, per raggiungere i traguardi sociali e culturali che tanto vogliamo difendere e diffondere?

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