Mentre questo articolo viene scritto, questa mattina un drone americano è stato abbattuto dalle forze iraniane. Tale atto, che difficilmente porterà allo scoppio di una guerra ma è un avvicinarsi ad essa, si inserisce in una tensione crescente nello Stretto di Hormuz, quel tratto di Mare in cui nei giorni scorsi sono state colpite due petroliere e, nei mesi precedenti, vi sono stati altri “incidenti” o sabotaggi.
Inquadriamo il contesto geografico, politico e militare nel quale si sono svolti questi avvenimenti.
Lo stretto di mare in questione è inserito in un ambiente sempre più caldo nel quale transita un numero considerevolissimo di navi e naviglio su cui viaggia non solo il greggio ma anche merci di ogni tipo. In questo scenario due/tre attori rilevanti stanno continuamente facendo attrito tra loro con l’obiettivo o di sopravvivere oppure di mantenere o allargare la loro sfera di influenza: stiamo parlando in prima battuta di Arabia Saudita e Iran e poi ovviamente anche di Israele. Tuttavia, vi sono anche attori esterni (Russia, Stati Uniti, Cina e altri) che appoggiano e sostengono i Paesi precedenti oppure, semplicemente, hanno interessi in quella zona, rendendo dunque il terreno di scontro globale.
Eventi regionali, sfide globali
Questo è dunque il quadro da tenere a mente: nella zona persistono non solo attriti locali (vedasi Israele- Hezbollah, Israele-Iran e Arabia Saudita-Iran ma anche in parte gli scontri tra Arabia Saudita e Qatar e Arabia Saudita contro gli Houti in Yemen) ma anche appunto interessi globali militari e geopolitici, economici, l’interesse verso una libera navigazione e le tensioni forse mai veramente sopite e esplose tra Stati Uniti e Iran.
Le tensioni sia militari che politiche non accennano a diminuire e si potrebbe affermare che da maggio vi è un continuo di sabotaggi e attacchi minori in tutto questo scenario, dallo Yemen al Golfo Persico fino allo sfondamento degli scafi delle petroliere Front Altair e della Kokuka Courageous, squarciati da quelle che potrebbero essere state mine magnetiche.
Ovviamente fonti americane hanno fornito diverse prove sulla responsabilità iraniana degli attacchi alle petroliere così come, allo stesso tempo, gli iraniani hanno sempre respinto le accuse, e diversi paesi europei (in testa la Germania) hanno invitato alla calma. Non ci si deve sorprende ovviamente date le differenti posture internazionali degli attori e dei Paesi.
Quale scenario ora?
Lo scenario è quello di un’importante indipendenza di azione dei pasdaran, inseriti mesi fa nella lista delle organizzazioni terroristiche, in modo diretto o attraverso un gruppo affiliato.
Una speculazione: si può facilmente ipotizzare una serie di azioni legate a prezzo del petrolio, a dinamiche interne ai rapporti ed all'equilibrio di potere nell’alta burocrazia iraniana e, ipoteticamente anche al desiderio di testare volontà di Trump, anche alla luce dell’abbattimento odierno del drone, il quale stava sicuramente agendo come acquisitore di informazioni e notizie per l’intelligence.
Gli Usa però, e in particolar modo Trump, vogliono rispondere a queste azioni ma senza trovarsi impelagati in una crisi ampia e ingestibile per tantissimi aspetti. Come affermato in precedenza (e da diversi autori e esperti) invadere o dichiarare guerra a Teheran risulterebbe controproducente e con obiettivi irrealistici e irraggiungibili allo stato attuale delle relazioni internazionali e nazionali, senza contare i legami strategici al di fuori dei confini nazionali iraniani e che possono essere impiegati strategicamente per complicare ulteriormente lo scenario. Resta plausibile, continuando sul piano delle speculazioni, il mantenimento e un inasprimento dell’hard containment messo in atto dall’amministrazione Trump.
Se si vuole parlare, dunque, di un dossier Iran si devono sommare una tale mole di eventi storici, politici, economici e militari che è ragionevole supporre una violenza solamente verbale e con alcune azioni di sabotaggio e di continuo innalzamento del livello di allerta hanno un buon motivo per sollecitare l’intervento della diplomazia e poter poi stemperare la situazione. Lo stesso presidente Trump ha auspicato (in realtà precedentemente all’abbattimento del drone) al fatto che si possa rinegoziare un nuovo accordo con l’Iran.
Dunque, tutte le manovre più o meno sommerse e nascoste sono, in un contesto del genere, soluzioni ideali: creano tensione senza lasciare un’impronta precisa e concedono tempo ai protagonisti. Almeno per il momento. E allora c’è ancora spazio per dialogare.
Concludiamo con un’ultima considerazione (e successiva speculazione, l’ennesima) sulla posizione che il Paese asiatico sta assumendo, la quale appare sempre più grave e pesante da mantenere sul lungo periodo.
Il sostegno ai ribelli Houthi in Yemen non sta infatti portando i frutti sperati ma anzi non porta ad un sostanziale scacco verso la monarchia saudita e lo stesso inserimento in teatri quali la Siria e l'Iraq ha portato, porta e porterà ad un rinnovato mobilismo internazionale di Israele e un rafforzamento delle relazioni tra il Paese ebraico con i Paesi del Golfo in ottica anti-iraniana (una novità assoluta le buone relazioni tra Israele e l'Arabia Saudita così come per esempio la prossima apertura di un'ambasciata israeliana in Bahrein).
In aggiunta a questo, lo stesso governo iraniano ha voluto comunicare l’intenzione di superare i livelli di arricchimento dell’uranio consentiti dagli impegni internazionali presi, allora non farà altro che dare ragione all’amministrazione americana e a tutti coloro che hanno sempre evidenziato la fallace efficacia di un Iran Deal (il JCPOA o Joint Comprehensive Plan of Action, N.d.R.) nel combattere la proliferazione nucleare sul medio e lungo periodo, dimostrando allo stesso tempo un rinnovato atteggiamento aggressivo quasi esclusivamente al suo interno, in una società, dal 1980-1988 (cioè dalla guerra tra l’Iraq e l’Iran, N.d.R.), fortemente e storicamente propensa al “noi” contro “loro/gli altri” a cominciare dagli altri arabi, sunniti, e poi contro gli Stati Uniti e l’Occidente. Tale retorica potrebbe anche portare il Paese arabo ad un cambio di leadership politica nel lungo periodo, sostituendo l’attuale presidente Rouhani con un presidente meno moderato e più aggressivo.
Non resta, dopo la precedente e conclusiva speculazione, attendere e continuare a seguire l’evoluzione dello scenario in un braccio di mare sempre più caldo e sempre più importante, su cui è calato un preoccupante silenzio nel nostro Paese, a sostegno del fatto che la politica estera e diplomatica in Italia non sia (a torto) prioritaria nelle agende politiche.
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