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  • Immagine del redattoreMarco Cencio

Urge una riflessione seria sulla cultura strategica

Durante i miei (pochi, pochissimi) studi sull'evoluzione del contesto internazionale nel corso della storia, abbinandolo poi alla lettura degli eventi che accadono intorno a noi, mi sono accorto dell’importanza di riuscire ad alimentare un dibattito serio e proficuo (e che porti subito dopo alla realizzazione di quello che alla fine si è deciso) sul possesso di una cultura strategica.


Ma cosa è una cultura strategica?


Sinteticamente, evitando in un colpo solo una lunga storia di diverse definizioni che non aggiungerebbero o toglierebbero nulla dato che il significato di quest’ultima è tuttora controverso, possiamo definire la cultura strategica come una lente interpretativa con la quale è possibile analizzare gli eventi connessi all’uso dello strumento militare. Identità e contesto culturale, dunque, rappresentano fattori-chiave per comprendere le politiche di difesa dei Paesi e sono questi componenti di quei fattori non materiali a cui lo stesso Clausewitz affidava un peso non indifferente. Potremmo ulteriormente definirla come l’insieme dato storia, geografia, ciò che uno Stato è chiamato ad affrontare, i principi e i valori dominanti, cioè il modo di fare la guerra e la propensione ad impiegare la forza, seguendo le parole di Carlo Jean.


Da queste poche righe emerge chiaramente il perché, dal mio punto di vista, sia importante il possesso di tale pensiero strategico il quale, a sua volta, dà poi origine ad una dottrina strategia, anch'essa importante. Il possedere entrambi permette allo Stato di poter indirizzarsi nel contesto internazionale, di poter approfondire la conoscenza di nuovi attori globali con una cultura ed una storia molto diversa da quella che possiamo definire occidentale (la Cina per esempio), di saper rispondere a minacce sempre diversi, performanti e “liquide” che possono provenire da qualunque possibile teatro operativo (terra, mare, cielo e dagli anni Duemila anche dal cyberspazio). Inoltre, possedendo una buona dose di autocritica, si potrebbe anche osservare due fatti.

Il primo riguarda le lenti interpretative della politica estera italiana (umanitarismo e multilateralità su tutte, senza voler toccare il concetto di pace e di “ripudio della guerra”) sono ancora valori legati al mondo bipolare che però è finito. Le lenti, preciso, non sono sbagliate di per sé ma lo sono in quanto rispecchiano un mondo per moltissimi aspetti superato e non più attuale.

Il secondo aspetto riguarda la cultura strategica dell’Occidente. Se infatti si studiano i piani strategici ed operativi delle missioni e degli interventi dei Paesi europei e non, raffrontandoli magari con le operazioni condotte durante le guerre coloniali o durante le guerre combattute sul nostro continente, si può notare che questi sono rimasti quasi inalterati. Gli eserciti occidentali infatti ragionano ancora in termini di battaglia decisiva, concentrazione della forza, veloce risoluzione del conflitto e, soprattutto dopo la Rivoluzione industriale, di superiorità tecnologica. Tale pensiero è stato messo in crisi più volte nel corso della storia, dalle guerre coloniali al Vietnam ed anche nel presente, con gli interventi in Afghanistan ed in Iraq.


Ed ecco il motivo per cui, personalmente, ribadisco l’urgenza di avviare un dibattito serio, maturo e condiviso sulla cultura strategica, altrimenti si corre il rischio di scivolare in un vicolo cieco e di non riuscire più ad operare ed a orientarsi sul piano internazionale.


Questo fatto, dunque, deve essere però un motivo di riflessione e critica, come già detto, perché che l’Occidente non sia più in grado di rispondere efficacemente ad un numero sempre crescente di minacce è una situazione assodata. Che altri attori, con culture strategiche differenti, si stiano affacciando sul panorama internazionale cogliendo successi in diversi luoghi in cui gli eserciti dei Paesi occidentali, in precedenza, dovettero ricorre ad una exit strategy, è un fatto altrettanto vero.

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